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Tanka 短歌

Il tanka è un componimento breve tradizionale giapponese. Infatti i due kanji significano rispettivamente “breve” e “poesia”. È più antico dell’Haiku, che infatti si sviluppa proprio dalla prima parte del tanka, un insieme di 3 versi da 5/7/5 morae, chiamato kami no ku, 上の句, strofa superiore, che con la parte inferiore, shimo no ku 下の句, strofa inferiore, crea un effetto contrastante.

Ora, quello che ancora non ho capito bene è se una sillaba lunga viene considerata una mora o due more. Cmq ho provato per la prima volta a fare dei tanka in giapponese e vediamo un po’ cosa esce fuori. Se qualcuno mi illuminasse su mora bimora sarei contento!

彼女の絵

a.
首の味 kubi no aji
華や果物 hana ya kudamono
香っている karatte iru

君の体は kimi no karadawa
季節感の地だ kisetsukan no chida

b.
君の髪 kimi non kami
高波ように takanami youni
かき寄せる kakiyoseru

お前の中に omaenonakani
どんどん沈む dondonshizumu

c.
激烈に gekiretsuni
いつでも見ると itsudemomiruto
暴風になる boufuuni naru

彼女の息は kanjo no ikiwa
世界を運ぶ sekaiwo hakobu

Ora, “you ni” è sono da considerarsi due o tre? Allo stesso modo 暴風 “boufuu” sono due sillate o sono 4? Di fatto sono sue sillabe bimoraiche, quindi come si conteggiano nei tanka/haiku?

La traduzione: Schizzi di lei – a. Profumo del collo / Fiori e frutta / È fragrante // Il tuo corpo / È la terra dell’aroma delle stagioni // b. I tuoi capelli / ripuliscono / Come alte onde // Dentro di te / affondo rapidamente // c. Violentemente / Ad ogni sguardo / Diventare tempesta // Il suo respiro / Muove il mondo

La pioggia sono lacrime d’invidia
del cielo che geme il non possederti
ed urla di tuono, senza speranza,
che quello è il solo modo di toccarti.
Non sa quel grigio il piacere d’un bacio
e s’avvampa di lampa frustrata
ché la paura ti renda più schiava,
più docile, più languida, più molle;
pur sempre più nero che par che cada
esplode nel veder che il caro abbraccio
non è immortale né onnipotente,
ma è solo il mio piccolo e tremante,
piccolo e insicuro, ma qui presente…
Si vendicherà e avrà ragion di me
giudice, quel giorno, terribil giorno,
ma sorriderò ancora pei ricordi
che non serba l’immortale memoria.

Fioche pulsazioni d’anima instabile
squassano il petto di cupa vertigine

Con voce di donna parlami ancora,

o Dio

Per la prima volta, preso da un accesso di broncopomonite, nella noia della degenza domestica, mi sono cimentato in un haiku in lingua giapponese. E’ la prima volta che faccio una cosa del genere e mi chiedo se sia scritto bene o meno, data la complessità della grammatica giapponese.

Di fatto, i veri imprecisi dovremmo essere noi, che traduciamo le sillabe dell’haiku in piedi metrici. Una sorta di ode barbara di carducciana memoria. E davvero barbari dovranno sembrare ai puristi zen dell’haiku. Non meno barbari di un italiano che scrive un haiku in giapponese.

雲に込んで
空は気になった
果てしない

Kumonikonde
Sorawakininatta
hateshinai

Affollato (konde) da nuvole (kumo-ni, anche se grammaticalmente NI vorrebbe un passivo, nel caso)
il cielo è preoccupato.
E’ infinto. (aggettivo, posto isolato senza DESU, – è – il vero di riferimento, che lo rende complicato da legare al resto della frase, pensato alla struttura tradizionale dell’haiku zen, che pone il terzo verso come soluzione finale tra finito e infinito).

Non saprei davvero dire se si può comporre in questa maniera. Se qualcuno può partecipare alla discussione, sarebbe carino. Ad Maiora!

Er vino

Er vino! Er vino nun te lassa mai,
fai pace e te dimentichi li guai;
e nun è mica comme na zozzetta:
se te lassa, ce sta n’antra fujetta
che te dice: nun te lasso mai solo
te dono ndorce sonno e te consolo!
Vino genuino

I fiori di pesco

Non puoi più distinguerli dalla terra
i fiori di pesco, una volta andati,
che neanche l’erba ricorda i colori.
Tu, ben altro in testa del primo vere,
neanche sapesti notarli cadere.
Forse per caso, un pomeriggio ozioso,
con sguardo indolente avvertisti il rosa,
rincasando, al di là del marciapiede,
ma lo perdesti negli altri fenomeni
che come te s’estinguevano altrove.
Svaporò come sogno in pochi giorni
e fu scontata sorpresa trovare
i frutti sui rami, pronti e maturi.
O altri notarono, forse inciampando,
il mistero d’una pesca marcita
con la sordida stizza della fretta
che mai si concede la meraviglia.

È così che non distingui i tuoi giorni,
quando, senza aver palpato quei frutti,
il rimpianto di quei petali rosa
con cui avresti danzato nel meriggio
sfuma nel bianco d’un volto cinereo
che presto, molto presto, troppo presto,
non si distinguerà più dalla terra.

Ricordi

“Nei sogni c’è uno scrigno di verità nascoste
A custodirle è l’anima, che narra le risposte
Nei sogni c’è uno scrigno
Ma la chiave è ben nascosta
A custodirle è l’anima,
La chiave è la risposta
Ciò che fa più paura
E’ la paura stessa
Solo un’emozione
La paura è questo
Paura del nero
Peura del male
Se ciò che sogni allora è vero”
(Apres la classe)
Arriva la prima immagine: avvallamenti di campagne che costeggiano la Nomentana in direzione esterna. Un pomeriggio tiepido e tanti pomeriggi simili, con poco traffico o forse più del voluto. Il sole è all’altezza giusta. Alle spalle il sorriso di mille sorrisi di una scuola rumorosa e la stanca gaiezza di chi ha fatto il suo dovere e si sente pieno della sua giovinezza. La sorpresa che non c’è la coda all’uscita del Raccordo e la canzone che finisce con tu che la canti, sorridendo, senza un motivo apparente. Non ricordi nulla in particolare, è solo il frammento di un periodo in cui tutto sommato i giorni si assomigliavano un po’ tutti. Un frammento di tranquillità e soddisfazione che non è legato a nulla se non a quei versi e al viaggio in macchina. Era pomeriggio. Tornavi a casa. Ed eri sospeso in quella sensazione che hai legato a quella canzone. Per il resto non c’era nulla di memorabile. Solo vita.

“From where I stand at the crossroads edge,
there’s a path leading out to sea.
And from somewhere
deep in my mind,
sirens sing out loud
songs of doubt
as only they know how.
But one glance back reminds, and I see,
someone else not me.
I keep looking back
at someone else… me?”
(Queensryche)
Ancora più indietro nel tempo. Non hai neanche 18 anni. Un pomeriggio come tanti altri. In cucina c’è tua nonna, nel pieno delle sue facoltà. Hai chiuso la porta per poter passeggiare ore mentre ascolti la musica a tutto volume. Ti dicono che è tipico dell’età. Non sai che continuerai a farlo ancora fino a 33 anni. Non ricordi cosa è successo di particolare quel pomeriggio. Hai sicuramente fatto tutti i compiti. Presto e bene, come sempre. Così dopo c’è la musica. Passeggia da solo e non sai neanche a cosa pensi. Pensi solo a cantare a mente quelle parole che in realtà non conosci. La luce a incandescenza colpisce i mobili. Finita la canzone, la rimandi indietro e la riascolti. Perché i cd costano cari e non sono ancora così diffusi. Finita, la rimandi indietro ancora. Dentro di te la pace di un vuoto in cui ci sei tu che canti e suoni il piano. Riconosci gli oggetti della tua casa. Sei al sicuro. Era pomeriggio. Stavi a casa. Ed eri sospeso in quella sensazione che hai legato a quella canzone. Per il resto non c’era nulla di memorabile. Solo vita.

The fool escaped from paradise will look over his shoulder and cry
Sit and chew on daffodils and struggle to answer why?
As you grow up and leave the playground
Where you kissed your prince and found your frog
Remember the jester that showed you tears, the script for tears
[…]But the game is over
(Marillion)
Ancora più indietro. Hai appena 15 anni. Forse neanche 16. C’è ancora quella ragazza dentro di te. Hai scoperto questa canzone per caso affittando il CD perché ti piaceva la copertina. Quando si affittavano i CD. Una vita fa. Sei in camera tue ed è tardo pomeriggio. Traduci il testo febbrilmente, rimanendo affascinato dai simboli e i continui rimandi poetici in cui ti ritrovi anche non capendone appieno il significato (anche solo prettamente lessicale). Non capisci “roundabouts” se è “giostra” o “rotatoria”. È poesia. Una persona potrebbe perdersi in incroci e rotatorio come in ritmi e giostre da fiera. Fuori dalla finestra è buio, forse è inverno e fa sera presto. Tutti sono fuori della tua stanza, ma cosa è successo di particolare quel giorno non lo ricordi. Passeggi avanti e indietro come la lupa del campidoglio per la stanza e la cosa ti piace. Non ricordi persone, avvenimenti o altro al di fuori di questo. Un altro ricordo inutile.  Era pomeriggio. Stavi a casa. Ed eri sospeso in quella sensazione che hai legato a quella canzone. Per il resto non c’era nulla di memorabile. Solo vita.

La nostra vita alla fine è una sequenza irrazionali di giorni più o meno simili. Pensiamo di esserne padroni quando invece non sappiamo neanche scegliere il peso delle cose importanti da ricordari. Così come è vero che magari non scorderai mai quel primo dicembre in cui scopristi che nell’amore c’è solo sofferenza, è pure vero che ricorderai una marea ingente di cose inutili che renderanno quel peso più piacevole.

TEMPORA

Ieri
È mattino… che la felicità
non sia adombrata dalle corrosioni
del dubbio foriero di paure.
È mattino e il sole splende sul mondo.
La vita stessa splende tutt’intorno
con lui ch’ora della terra è respiro.

Il vento della sera
porta il caro profumo
del ritorno, dei nostri
abbracci imminenti come il crepuscolo,
della maternità
incipiente di luna.
Il vento della sera
riempie la casa di conviviale
attesa del talamo notturno,
che il sogno della veglia continui
nel sonno e si perpetui nell’alba.
Ma è ancora il meriggio dorato…
e il vento si sente fischiare
lontano nei bagliori del cielo
estivo…

Oggi
Vuoto. Quasi che il cielo sia uno spazio
inane, asservito a potenze estranee,
inutile e scialbo contenitore
di miserie ed esecrabili beffe.
Vuoto, ghibli di polvere desertica,
duna che avanza di sterile sale,
nel clamore della sabbia su sabbia:
è deserto la verità del sole,
che fa del meriggio l’illusione
della Fata Morgana
che irride nell’inganno del demonio.
Vuoto. Quasi che il vento non più amico
abbia esiliato i profumi d’agosto
e le speranze fiorite d’aprile
oltre l’inconnotabile orizzonte
nell’esilio d’una petraia ardente.
Vuoto, che la speranza ha trasmigrato
verso corpi più molli e disponibili,
meno sozzi di peccati e malie,
lasciando dietro la sciatta agonia
della quotidianità opacizzata
che dimentica dei gesti d’amore
estingue gli incantesimi d’affetto
che riempirono i polmoni d’inverno.
Vuoto, che pure i nomi sono astratti
e le parole incapaci di dire,
e chiamarsi e cantarsi è cecità
che non vede la luce d’un discorso.
Vuoto perché ogni parola è silenzio,
inguadabile ed arcana distanza
nello spazio che un dì ci vide amanti.

Ode al sarago

Sarago

Cazzeggiando con un’amica su FB, ci siamo trovati a parlare della vacuità di certa poesia. E quindi abbiamo iniziato a giocare su cose inutili. Memore di sensualissime liriche su carciofi e pomodori del signor Neruda, non si sa come è uscito fuori il sarago, pesce di paranza quasi a buon mercato… Ed ecco cosa ne è scaturito…

Giù dal piano ondulante di corrente
cavalcando il nero di posidonie
semoventi al vento fluido del mare,
cascata di mercurio t’inabissi,
confuso nella fiumana del branco,
sararago, brillante specchio del sole.
Bagliori porti d’un mondo lontano,
sempre ostile, in un mondo ov’io
sono ospite inatteso e fluttuante.
Incurante del cielo ti rapisci
una porzione di sole in un luogo
che rigetta la luce in superficie.
Cascata d’argento, forma sinuosa,
drago vivo e multiforme, mio sarago,
nella meraviglia di chi t’uccido.
Da lontano ti ammirano tre tonni,
con invidia ti guardano le cernie,
con sospetto il polpo giocherellone
e con indifferenza la murena.
Non sa, il cannibale che t’ha ucciso,
quanta dignità nella tua armatura
porti in poca profondità al mattino.

Più breve di un respiro si può sciogliere
un sorriso di tenera illusione

Nell’occhio che irride alla primavera
chiuso dischiuso veloce nel sole
si consuma col pulsare del cuore

Ci dona l’amore
solo brevi poesie